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Il massacro di Deir Yassin: il terrore come pietra angolare dello Stato sionista

La mattina del 9 aprile 1948, il villaggio palestinese di Deir Yassin, a ovest di Gerusalemme, si svegliò in un incubo orchestrato non da ombre senza nome, ma da uomini i cui nomi sarebbero stati poi incisi nelle fondamenta di uno Stato. Irgun e Lehi, due gruppi paramilitari sionisti, lanciarono un attacco che durò ore, ma lasciò cicatrici che il tempo non ha potuto guarire. Almeno 107 civili furono uccisi, molti dei quali donne, bambini e anziani. Ma in un massacro definito dalla ferocia, una storia spicca come una ferita che non si chiuderà mai.

Abdoul Ra’ouf Al-Shareef era solo un bambino. Suo padre, Hamed, gestiva una panetteria nel villaggio. Quando gli assalitori arrivarono, gli ordinarono di gettare suo figlio nel forno comune. Quando si rifiutò, lo picchiarono fino a fargli perdere i sensi. Poi presero il ragazzo e lo bruciarono vivo davanti alle rovine fumanti della sua casa.

Non è una diceria o una leggenda. Le testimonianze dei sopravvissuti, raccolte da storici palestinesi e osservatori internazionali, confermano l’evento. È un fatto storico documentato, sepolto non per mancanza di prove, ma per ciò che rivela: la creazione dello Stato di Israele non fu semplicemente accompagnata dalla violenza, ma fu concepita attraverso di essa. E ciò che fu fatto ad Abdoul Ra’ouf non fu casuale: fu terrorismo, secondo ogni standard legale, morale e umano.

Terrorismo, definito legalmente

Secondo la Risoluzione 49/60 dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite (1994), il terrorismo è definito come:

“Atti criminali intesi o calcolati per provocare uno stato di terrore nel pubblico… a fini politici.”

La Decisione Quadro dell’Unione Europea sulla lotta al terrorismo (2002) riprende questa definizione, descrivendo il terrorismo come atti commessi con l’obiettivo di:

“intimidire gravemente una popolazione, costringere indebitamente un governo… o destabilizzare gravemente o distruggere le strutture politiche, costituzionali, economiche o sociali fondamentali di un paese.”

Secondo questi standard, le azioni di Irgun e Lehi, in particolare a Deir Yassin, non furono operazioni militari. Non furono scontri tra pari armati. Furono atti criminali di terrore, intesi a intimidire, destabilizzare e rimuovere con la forza una popolazione civile per stabilire uno Stato sulle sue rovine.

Il targeting di civili, l’uso della guerra psicologica e l’intenzione di provocare una fuga di massa tra i palestinesi furono deliberati, sistematici e guidati da un’ideologia. In quanto tali, soddisfano tutti i criteri legali per il terrorismo secondo il diritto internazionale consuetudinario, inclusi quelli articolati nello Statuto di Roma della Corte Penale Internazionale, che criminalizza gli atti diretti intenzionalmente contro popolazioni civili come crimini contro l’umanità e crimini di guerra.

Il silenzio del mondo

Se Abdoul Ra’ouf Al-Shareef fosse stato un bambino israeliano, europeo o americano, la sua morte avrebbe scosso il mondo. Sarebbe apparsa in prima pagina. I leader politici avrebbero pianto in conferenze stampa. Le condanne sarebbero state rapide, le sanzioni minacciate e i responsabili braccati.

Ma Abdoul Ra’ouf era palestinese. Il suo villaggio non aveva ambasciate, lobby o Stato. I forni della panetteria di suo padre non avevano un pubblico globale. Il mondo accolse la sua morte con il silenzio, un silenzio che risuona ancora oggi. L’asimmetria dell’empatia non è solo un fallimento emotivo; è un’accusa morale a un ordine mondiale che divide gli innocenti in coloro le cui vite contano e coloro i cui decessi possono essere giustificati come collaterali.

Terrore per disegno: Irgun, Lehi e il progetto per la statualità

Il massacro di Deir Yassin non fu un’aberrazione. Fu parte di un modello più ampio di attacchi che condividevano tattiche comuni: colpire centri civili, piazzare bombe nei mercati, prendere di mira anziani e giovani, e usare una violenza estrema non per vincere battaglie, ma per terrorizzare una popolazione fino alla fuga.

Non furono atti spontanei di disperazione. Furono crimini premeditati, eseguiti per creare terrore, minare il morale e costringere alla resa politica. Il governo britannico dell’epoca classificò Irgun come un’organizzazione terroristica e mise una taglia su Menachem Begin, il suo leader. Begin visse nascosto sotto una falsa identità, non come combattente per la libertà, ma come fuggitivo.

Eppure, appena tre decenni dopo, Begin divenne Primo Ministro di Israele. Gli fu conferito il Premio Nobel per la Pace. Il partito Herut che fondò divenne Likud, il partito al governo di Israele oggi. La linea da Deir Yassin a Netanyahu non è simbolica: è diretta e continua, una discendenza politica radicata nel sangue e normalizzata attraverso il potere.

L’avvertimento di Einstein

In uno degli interventi moralmente più incisivi nella storia del conflitto, Albert Einstein, insieme a pensatori come Hannah Arendt e Sidney Hook, scrisse una lettera al New York Times (4 dicembre 1948), denunciando Menachem Begin e il suo partito Herut. La lettera paragonava esplicitamente la loro ideologia e tattiche a quelle dei regimi nazisti e fascisti.

“L’incidente di Deir Yassin esemplifica il carattere e le azioni del Partito Herut… un partito politico strettamente affine nella sua organizzazione, metodi, filosofia politica e attrattiva sociale ai partiti nazisti e fascisti.”

Einstein, ebreo e sionista di coscienza, riconobbe che uno Stato costruito sul terrore non sarebbe stato un rifugio per gli ebrei, ma una maledizione per loro. Il suo avvertimento non fu ascoltato. Il mondo preferì l’illusione di una nascita miracolosa alla verità di una nascita violenta.

Le fondamenta dello Stato

Il massacro di Deir Yassin non fu un tragico effetto collaterale di una guerra per l’indipendenza. Fu uno strumento deliberato di costruzione nazionale, parte di una campagna coordinata per spopolare la Palestina. La Nakba, la catastrofe che vide oltre 700.000 palestinesi espulsi, non avvenne nel vuoto. Fu preparata da massacri, rinforzata da attentati e finalizzata dal terrore.

Il terrorismo non fu incidentale alla nascita di Israele. Fu fondativo.

Bruciare un bambino vivo nel forno di suo padre non è un atto di guerra. È un atto di intento genocida. E quando tali atti non solo sono tollerati, ma premiati con la statualità, la legittimità e il silenzio internazionale, non abbiamo semplicemente fallito la giustizia: l’abbiamo invertita.

Conclusione: la memoria come resistenza

Il mondo oggi si torce le mani per l’intrattabilità del conflitto, come se fosse nato da antichi odi o intransigenze religiose. Ma la radice è qui, nelle ceneri di Deir Yassin, nel silenzio sull’omicidio di Abdoul Ra’ouf, nella normalizzazione del terrorismo quando serve i potenti.

Ricordare Abdoul Ra’ouf significa sfidare l’architettura morale della nostra epoca. Significa dire che le vite palestinesi non sono usa e getta. Che il terrore, quando è usato dai vincitori, è comunque terrore. Che il silenzio, quando protegge i forti, è complicità.

Ed è fare eco alla supplica di Einstein: Non costruite un futuro sulle ossa degli innocenti.

La giustizia inizia con la verità. E la verità è questa: lo Stato di Israele è nato nel terrore. E finché questa fondazione non sarà riconosciuta, lo spargimento di sangue continuerà, non per fato, ma per negazione.

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